Storie di ordinaria barbarie

Danilo Coppola fa parte di quella categoria di personaggi che si è soliti guardare con sospetto, come diceva Totò, a prescindere, e questa pensandoci bene, è già una condanna.
Niente di ironico nella battuta sia ben chiaro, stiamo di fronte al dramma di una persona, ma non è tollerabile che nel nostro paese si continui ad fare un uso della carcerazione preventiva o, per usare il gergo tecnico, della custodia cautelare, che è in aperto contrasto con la carta costituzionale e con i più elementari principi giuridici di uno stato di diritto.
Ho scelto volutamente il caso di Danilo Coppola in quanto paradigmatico, perché nella vulgata popolare mediatica è il personaggio sgradevole, l’immobiliarista senza scrupoli corrotto e corruttore, il magliaro, già amico dei potenti, guardato con disprezzo dai salotti buoni, che ha avuto però il piccolo difetto di cadere in disgrazia e si sa, una volta nella polvere, si scatenano le più vergognose reazioni diciamo così giustizialiste, intrise di moralismo d’accatto e di pulsioni da vendetta di piazza.
E sotto questo profilo, come accennavo, una sentenza di condanna vi è già stata per cui in fondo è normale che non ci si scandalizzi più di tanto.
Non è altrettanto normale che nessuno si renda conto che l’allungarsi dei tempi della custodia cautelare sta a significare l’allontanarsi dei tempi del processo con il conseguente fallimento del compito di amministrare la giustizia che è poi uno dei fini precipui di uno Stato.
Se il funzionamento del sistema giuridico è la cartina di tornasole del grado di civiltà di un paese per quanto riguarda l’Italia il bilancio è a dir poco impietoso.
L’Italia continua a collezionare centinaia di condanne dalla Corte di Giustizia europea per denegata giustizia e quindi non può destare meraviglia se qualcuno ha definito il nostro paese, dal punto di vista tecnico giuridico, un delinquente abituale e recidivo.
Non si ha il coraggio civile di ammettere che la carcerazione preventiva da strumento di carattere eccezionale, di privazione della libertà personale prima del processo, appunto da eccezione, è divenuto un mezzo cui spesso si fa ricorso e dietro al quale sovente si nasconde il fine surrettizio di occultare un sostanziale fallimento dell’attività investigativa, la quale invece richiede meno protagonismo mediatico e maggiore sviluppo del ruolo di indagine della polizia giudiziaria.
La grande intuizione garantista e liberale, tipica dei sistemi anglosassoni, dell’habeas corpus, al di là del richiamo alla lingua latina, non ha mai avuto grandi estimatori nella nostra tradizione giuridica, che, al di là dei retorici richiami a Beccarla, è più legata da quel filo rosso che partendo dall’inquisizione arriva sino ai codici Rocco ed alle leggi speciali degli anni settanta.
Nelle settimane scorse Maurizio Turco, deputato radicale della Rosa nel Pugno, ha visitato in carcere Danilo Coppola e da quella visita è emerso che le preoccupanti condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con la custodia cautelare in carcere.
Non ci interessa sapere se Coppola sia o meno colpevole dei reati che gli sono stati contestati, perché il principio dell’habeas corpus prescinde da ogni valutazione sulla responsabilità penale, se è vero come è vero che deve valere il principio della presunzione d’innocenza sino a che non vi sia una sentenza passata in giudicato .
Tale circostanza è demandata al processo che non può essere peraltro rimandato ad libitum.
Quello che occorre ribadire con forza e che non può lasciare indifferenti ed inerti è che è barbarie che una persona debba essere condannato prima del processo ad una carcerazione dilatata nel tempo ed a subire un trattamento inumano che rischia di divenire tortura fisica e psicologica.
L’iniziativa di Maurizio Turco non ha avuto grande eco, come era prevedibile.
D’altro canto i Danilo Coppola e i personaggi come lui hanno il torto di essere impresentabili per i Santoro, per i Travaglio, per i Grillo e per quei sepolcri imbiancati che s’indignano su tutto, catoni censori a buon mercato delle coscienze collettive e che in questa marea montante di guano sembrano trovarsi e navigare a proprio agio.
Giuseppe Napoli