La nuova produzione di valore che amplia e civilizza il mercato

Si stanno spontaneamente ridisegnando le organizzazioni dalle fondamenta. I bisogni assumono una natura sempre più personalizzata e sempre meno intermediata dai corpi sociali tradizionali. Gli amministratori pubblici vengono sempre più stimolati all’uso, anche sperimentale, di forme sempre più aperte di impresa sociale, di cittadinanza attiva che dà vita a un ecosistema di risorse utili, promuovendo nuova imprenditorialità diffusa e sostenibile.

Nuovi meccanismi di generazione di valore che tendono a ricombinare sociale ed economico, senza separarlo. Nuovi servizi alla persona, nuova manifattura e nuove tecnologie. Imprese ibride polifunzionali a pluralità di obiettivi. Persone con ruoli sempre più ibridi tra produttore, consumatore e finanziatore. Tecnologie non più solamente supporti, ma parte dell’umano e della sua dimensione relazionale.

La conferma del valore autenticamente sociale di molte imprese ibride viene dai giovani. Servono infatti occhi nuovi per leggere l’innovazione che si manifesta. Una recente ricerca sui giovani negli Stati Uniti (i millennials) evidenzia come sia proprio la pluralità di obiettivi il fine dell’impresa a cui guardano. Così anche in Italia dove i dati delle Camere di commercio dicono che le imprese fondate dagli under 35 veleggiano verso un milione e crescono a ritmi più elevati della media, con un minor tasso di chiusura.

Vi è anche il crescente orientamento della Pubblica Amministrazione a premiare forme organizzative in cui efficienza e dimensionamento si accompagnano a capacità di co-progettualità e co-investimento, facendo leva su meccanismi, tipicamente ibridi, di partnership pubblico-privata. E, ancora, va osservata la forza trasformatrice esercitata da un numero crescente di imprese “for profit” che costruiscono la propria competitività dentro il perimetro del valore condiviso, inteso nella sua valenza comunitaria, coesiva e collaborativa.

Si tratta di qualche centinaio di startup innovative che comunque crescono velocemente e soprattutto poggiano su popolazioni organizzative più ampie, come le oltre 8 mila 'imprese coesive' censite da fondazione Symbola. Si tratta di piccole e medie imprese for profit attive nei settori di eccellenza del made in Italy (manifatturiero, agroalimentare) che performano meglio in termini di fatturato, occupazione, internazionalizzazione, ... perché investono non solo in innovazione tecnologica, ma anche sulla coesione sociale e sulla valorizzazione di risorse 'di luogo' (attrattori culturali, competenze diffuse, relazioni con la società civile) rendendole parte integrante della loro catena di produzione del valore.

Piccoli numeri, ma significativi di tendenza, comunque a fronte di un tessuto di 15mila imprese sociali di origine non profit. Il non profit è fatto anche da 6 milioni di volontari, con al loro fianco un milione di lavoratori retribuiti, e vive di contributi pubblici e privati, ma muovendo entrate per 70 miliardi di euro - un po’ di furbastri italioti nel mezzo, ma non è un fascio da fare in tal senso – con il 20% di entrate che avviene attraverso scambi di mercato con famiglie, cittadini, imprese, altre organizzazioni non lucrative.
Infine, il non profit eroga i suoi servizi a soci di associazioni, organizzazioni di volontariato e cooperative sociali, ma con consistenti eccezioni, considerando che sono oltre 20 milioni gli 'utenti disagiati' (persone malate, povere, disabili, immigrate, ecc.) che usufruiscono delle loro attività senza alcun vincolo associativo.

Il tema dell’identità emerge non per via statutaria, ma sempre di più per l’impatto che deriva dalla gestione di concrete attività. Questo è indice di un elevato grado di cambiamento, che procede sia per spinte interne sia per effetto di trasformazioni della società, di cui il Terzo settore è parte integrante. Terzo settore identifica quegli enti e quelle imprese che operano e si collocano in settori non riconducibili né al Mercato né allo Stato. Una realtà sociale, economica e culturale in continua evoluzione, che ha trovato nella Legge 106 del 6 giugno 2016 una sua definizione giuridica.

Nella periferia est della smart city milanese, in via Cavriana, si trova una cascina dedicata a Sant’Ambrogio, il patrono di Milano. A gestirla è un’associazione, CasciNet - impresa sociale a responsabilità limitata che, come recita la dichiarazione di missione, si occupa di «studiare, tutelare e valorizzare l’identità storica, artistica e ambientale di Cascina Sant’Ambrogio» - alla quale il Comune di Milano ha firmato un contratto trentennale di affittanza agricola, ovvero a quel gruppo di giovani che negli ultimi tre anni hanno trasformato la Sant’Ambrogio in un “hub” di innovazione che oggi riesce a coinvolgere 1600 persone.

Fin qui nulla di strano, finché non ci si addentra nelle attività dell’associazione. Da lì in poi tutto si fa più 'ibrido' ed è proprio da questa ricombinazione di valori che nascono nuove forme di organizzazione di impresa a finalità sociale. CasciNet infatti ha trasformato gli spazi della cascina in «hub multiservizi di innovazione agricola, culturale e sociale» dove si trova uno spazio di coworking, un incubatore di imprese, laboratori di restauro, una foresta commestibile fruita e cogestita, servizi sociali per persone escluse e l’immancabile eventologia cultural-ricreativa milanese. Troppe cose – e pure diverse – per un’associazione che per di più ha siglato l’accordo con il Comune di Milano impegnandosi a «garantire 190.000 euro tra investimenti obbligatori e facoltativi nella manutenzione straordinaria per il recupero della Cascina».

Milano sta diventando un punto di riferimento per l’agricoltura urbana e la riqualificazione dei terreni agricoli: non più periferie lontane e abbandonate, ma nuovi centri di vita cittadina ed occasioni di sviluppo economico e culturale. (Fonte MILANO TODAY)

C’è qualcosa a Lecce e dintorni dove costruire qualcosa di analogo ?

Sorprendente è la lettura di un testo pubblicato dalla Camera di Commercio Milano, che qui abbiamo cercato di riassumere per infine concludere.

Il cliente/consumatore sta diventando sempre più consapevole del proprio potere nel mercato economico e quindi non è più un fruitore passivo di ciò che il mercato ha scelto per lui, ma è lui stesso che con i suoi bisogni determina la scelta delle aziende e, quindi, del mercato. Il consumatore, oggi, ha il potere di determinare il vero successo di un prodotto, di un'azienda piuttosto che di un'altra. Le esigenze sono cambiate; non è più sufficiente presentare un prodotto semplicemente intervenendo su aspetti puramente esteriori, come una confezione più gradevole, o la possibilità di un premio o, ancora, attraverso una pubblicità più incisiva. Senza dubbio questi fattori hanno ancora una loro valenza, ma devono essere un supporto alla qualità del prodotto stesso, al rapporto qualità/prezzo e al rispetto di una serie di garanzie etiche.

Le garanzie etiche sono, sicuramente, di varia natura e vanno dalla scelta delle materie prime, che devono essere descritte in maniera chiara, fino ad arrivare alle certificazioni di qualità relative al rispetto dell'ambiente ma anche dell'individuo. Quest'ultimo elemento è di grande attualità in quanto si propone di salvaguardare le categorie sociali a rischio, e quindi di salvaguardare i minori e tutti coloro i quali dovessero essere costretti ad accettare ritmi e situazioni lavorative in genere di sfruttamento, per la necessità di sopravvivere. C'è, quindi, una maggiore attenzione al rispetto di valori che riguardano sia l'individuo sia l'ambiente, messo sempre più in difficoltà da polveri e solventi che invadono liberamente l'aria, il mare, i fiumi e il territorio in genere. Il percorso che ha determinato questa situazione non è stato né automatico né semplice. Si va, in ogni modo, verso una nuova organizzazione della vita e del lavoro dell'uomo che, questa volta, si trova a dover affrontare problemi che, ancora oggi, appaiono di non facile soluzione.

Capitalismo, catena di montaggio, disumanizzazione del lavoro, alienazione ne sono un esempio. Tanto è stato scritto su queste problematiche, e tante sono state le soluzioni proposte. Come mai, allora, ancora oggi, in un'epoca in cui si può disporre di una tecnologia all'avanguardia e di tante conoscenze sulla natura dell'uomo e malgrado queste nuove necessità imposte dal mercato, ci troviamo ad affrontare i problemi legati ad una crescita economica e tecnologica così lontana dall'uomo, così lontana dai bisogni non-materiali dell'individuo?

Perché l'economia possa essere il fulcro di un progetto etico, è necessario che si fondi su basi morali. Il mondo degli affari può essere considerato la fabbrica per eccellenza di immoralità, interesse ed egoismo, anche perché non ha ancora assimilato nel modo giusto l'idea di economicità e questo ha determinato il verificarsi di condizioni lavorative al di là dell'umanamente accettabile. La rivoluzione industriale ha aperto questo vaso di Pandora e tutti i mali hanno trovato fertile terreno nelle debolezze dell'uomo. Solo la consapevolezza di un percorso etico può eliminare l'immoralità e il disordine e determinare una crescita non più individuale, ma della comunità, sia essa la famiglia, lo Stato, la grande impresa o la piccola impresa.

Sembra fin troppo banale ma, in realtà, questo è un percorso faticoso e richiede grandi sacrifici da parte di tutti. L'uomo, infatti, non ha in sé il concetto di altruismo, per cui è necessario un grande esercizio che possa avvicinare l'uomo all'uomo, insegnando che rinunciare a qualcosa per il bene del nostro prossimo, può determinare in senso economico una maggiore ricchezza. L'uomo deve imparare a sacrificare parte del suo utile al bene comune, proprio come sosteneva l'idea rousseauniana di condivisione.

Questo concetto o ideale dovrebbe essere applicato anche in economia, soprattutto in un momento in cui la povertà aumenta non solo come povertà del singolo, ma anche come povertà di Paesi detti appunto del Terzo Mondo. Un Terzo Mondo dimenticato e sfruttato nel passato e, per certi aspetti, anche oggi, nonostante le popolazioni guardino all'Occidente civilizzato ed industrializzato come ad una via di salvezza, di fuga da una vita di miseria.

Il pluralismo etnico del nostro secolo non ha subito, come naturale conseguenza, i cambiamenti necessari per porre in equilibrio i nuovi elementi che sono entrati a far parte del panorama economico ed umano. Per troppo tempo si è pensato di sfruttare il lavoro dei più deboli, impoverendoli culturalmente, spiritualmente e arraffando dai loro territori le materie prime necessarie a nutrire una cultura capitalistica ed utilitaristica difficile da debellare.

Così, ciò che dovrebbe essere cristianamente normale, naturale nel rapporto tra gli uomini, e cioè l'aiuto reciproco sia da un punto di vista spirituale che economico, è, al contrario, innaturale; per cui è necessario non solo educare l'uomo a tale condivisione, ma determinare le condizioni che gli permettano di esercitare ciò che ha appreso, giorno per giorno.

Non si chiede, certamente, all'imprenditore di travestirsi da santo o da buon samaritano, semplicemente gli si chiede una grande umanità, senso del rispetto verso il prossimo chiunque esso sia, di guardare a se stesso come parte di un tutto. Bisognerebbe riscoprire il piacere dell'umiltà intesa come porta per far entrare gli altri e per poter condividere le loro idee, imparare qualcosa di nuovo e di utile e insegnare anche qualcosa.

In campo economico, dove tutto è ancora segnato dal tempo, dall'utile, dal profitto, permettere al lavoratore condizioni lavorative migliori, anche da un punto di vista economico, equivarrebbe sicuramente ad una crescita economica per tutte le parti che sono coinvolte in questo difficile meccanismo. In quest'ottica, sarebbe sicuramente utile predisporre dei luoghi e stabilire dei momenti di incontro delle parti per scambiare le diverse idee su uno stesso percorso, oppure per affrontare serenamente problematiche interne all'azienda.

Concludiamo così: Siamo tra noi legati e solo apparentemente divisi; abbiamo il dovere di far comprendere l'umana solidarietà, non come un presupposto mistico, ma come una legge benefica e utile a tutti.
C'è chi sa "cosa", ma non sa "come", e c'è chi sa "come", ma non sa "cosa"; c'è chi "vede" i problemi della nostra civiltà, ma non sa come agire per risolverli praticamente, e c'è chi "agisce ciecamente", creando e alimentando a sua volta tali problemi.
Viva la libera impresa ed iniziativa, politica e sociale, ma è essenziale ad un generale riassetto e allo sviluppo economico e sociale, che ogni processo e possesso venga certificato, dunque come notificato alla comunità, oltre quanto sino ad oggi viene fatto a proposito.
Internet consente oggi di muovere in un contesto partecipato, tra tutto ciò che concorre alla determinazione di un equilibrio possibile e compatibile, in costanza di progresso.