LA LIBERTÀ DI DIO

Il seguente sermone è stato scritto dal pastore valdese Peter Ciaccio. Il pastore tiene a precisare che non è iscritto ad alcun partito politico.
(Ringrazio Peter per la disponibilità concessa a far pubblicare il suo intervento sul sito "Diritto & Libertà". F.to Giuseppe Rodia)

Carissimi,
vi propongo il mio sermone di oggi per la festa della libertà tratto da Luca 8,4-15 (la parabola del seminatore). E' un po' lungo, ma spero possa esservi d'ispirazione.
Oggi la nostra chiesa è in festa. Oggi festeggiamo la libertà, la libertà di poterci riunire liberamente, di poter esistere in quanto cittadini a dispetto della nostra appartenenza religiosa, la libertà di portare sulla pubblica piazza il messaggio che ci è stato affidato.
161 anni fa finiva, nei territori sotto casa Savoia, la violazione di quello che oggi è definito un diritto umano, ovvero la discriminazione di un cittadino per il suo particolare credo religioso. Prima i valdesi non erano cittadini. Punto. È difficile da immaginare, per noi. Probabilmente oggi potrebbe spiegarvelo meglio di me un immigrato, comunitario o extracomunitario che sia, che cosa significhi non essere cittadino, anzi, non godere neanche dei diritti di un cittadino ospite. Significa che per la società sei un essere umano di serie B. Significa essere trattati da inferiori. Significa negare all’altro la comune appartenenza alla razza umana. Questo avveniva per i valdesi prima di quel 17 febbraio 1848 e questo avviene oggi per tanti altri.
Le lettere patenti di Carlo Alberto che concedevano le libertà civili alla popolazione di religione valdese contenevano un difetto che noi spesso dimentichiamo, anche perché presi dal giusto desiderio di festeggiare. Questo difetto è che erano una concessione. Il potente di turno non riconosce i diritti di cittadinanza ai valdesi: il potente di turno li concede. Il potente di turno si sente potente, si sente arbitro inappellabile, si attribuisce un potere discrezionale enorme e invece di dire “Riconosciamo il diritto dei valdesi di essere cittadini come gli altri, perché purtroppo noi ci siamo sbagliati nel negarglieli prima di oggi”, invece di dire questo, dice “concediamo”. Concediamo, perché siamo buoni: questo è l’inganno del potere. L’inganno nei confronti dei sottoposti, ma anche l’inganno nei confronti di se stessi. Il potente si illude che lui possa concedere o meno ciò che è un diritto. È chiaro che i valdesi di allora videro nel gesto di re Carlo Alberto la mano di Dio, così come gli israeliti videro la mano di Dio nell’editto di Ciro, che permetteva loro di tornare a casa dopo anni e anni di esilio in Babilonia. Tuttavia, sovrani e sudditi, tutti quanti, dobbiamo ricordarci che il vero potente è Dio.

Nella parabola che abbiamo letto oggi dal vangelo di Luca vediamo una manifestazione della potenza di Dio. In questi versetti, Dio è rappresentato come un seminatore che getta il suo seme dappertutto. Se noi vedessimo un seminatore che getta il suo seme dappertutto, cosa penseremmo di lui? Che è un pazzo, uno sprecone, uno che non capisce che cosa sta facendo. Questa è l’immagine che ci dà Gesù di Dio in questa parabola. E noi guardiamo questa immagine e non capiamo. Non si fa così. Signore, non si semina dappertutto. Signore, se il seme è la tua Parola, la tua Parola è preziosa: perché sprecarla dove non prende? Daccene di più a noi. Signore, noi siamo il terreno fertile e te lo abbiamo dimostrato, con la nostra fedeltà, nei secoli passati, nei giorni nostri.
È vero. Noi siamo qui. Riuniti intorno alla sua Parola, intorno alla sua mensa. Ma è ancora più vero che Dio è il seminatore che fa come gli pare e piace, è il seminatore che getta il seme ovunque, anche dove non prende, perché è libero di fare quel che vuole. Non solo, è un seminatore che può far nascere frutto anche nei terreni più impossibili da coltivare, è un Dio che può far sorgere la fede anche nelle persone più impensabili.
E oggi che parliamo della libertà nostra, vorrei che pensassimo all’azione di Dio, all’azione del seminatore, come ad un’azione di estrema libertà, di suprema libertà. E la libertà è libertà da qualcosa. E nel caso di Dio si tratta di libertà dalla natura. Un seminatore che semina senza alcun criterio razionale, senza tener conto della natura, ma anzi sfidando la natura.
Ecco, da troppo tempo, in Italia si parla a vanvera della natura e si eleva ciò che è considerato naturale a volontà divina. Questa è la posizione che la chiesa cattolica esprime con parecchia insistenza sin dal 1968, quando Paolo VI nell’enciclica Humanae vitae ha scritto le seguenti parole: “la legge naturale è espressione della volontà di Dio”. Sembrano delle parole innocue: “la legge naturale è espressione della volontà di Dio”. Sembra buon senso: la natura è stata creata da Dio e allora la legge naturale è espressione della volontà di Dio. Ma non è così. Paolo VI prese un abbaglio quando scrisse queste parole. Il seminatore della parabola non segue la legge di natura. Quando Cristo sconfigge la morte, sconfigge la legge di natura. Ma potremmo dire: “Va bene, ma sono piccole cose…”
E invece non sono piccole cose. E ce ne accorgiamo ogni giorno. Pensiamo alla giustificazione che si dà alla discriminazione delle persone omosessuali: non discrimino gli omosessuali perché non mi piacciono, ma perché qualcuno dice che siano contro natura. Ci si nasconde dietro la legge di natura per giustificare la propria incapacità di amare il prossimo. Oppure pensiamo a tutte queste storie che si fanno sulle questioni della contraccezione. “È vita! È vita! È vita umana! È vita naturale!” è quanto grida chi è sviato a pensare che la vita umana non è una persona dotata, appunto, di umanità, ma un minuscolo embrione. È un progetto di vita, sì. Ma non possiamo privilegiare i progetti di vita ancora da compiersi, rispetto alle vite già compiute, già in atto, ai sentimenti delle persone vive, pensanti, che si relazionano gli uni gli altri. Ma il mio sermone non vuole essere anticattolico, ma opporsi ad un certo modo trasversale di essere cristiani. Credo che ognuno si ricordi un fatto di cronaca di qualche anno fa, quando in America, tra alcuni fondamentalisti protestanti, in nome della vita c’era chi uccideva i medici delle cliniche che praticavano aborti. Vedete l’assurdità? Si predica la vita, ma si pratica la morte! E pensiamo a quanto è successo nelle ultime settimane. So di toccare un argomento sensibile e spero di non urtare il sentimento di nessuno qui. Ma se penso che nella tragedia della famiglia Englaro, c’è stato chi ha pensato solo a giudicare (e quando dico giudicare, intendo condannare) un padre che ha portato una croce che, non so voi, ma io di sicuro, non posso nemmeno lontanamente immaginare, e perché? Per la natura? Per la vita? Per la vita naturale?
In questa vicenda, oltre al giudizio, ho visto un attaccamento alla vita non per gli attributi che ognuno di noi dà alla parola vita quando parla di se stesso, ma alla vita in quanto simulacro, in quanto idolo. Come se non ci fosse un’altra vita, come se, consumata questa che abbiamo noi che respiriamo in questa chiesa, non ci fosse più speranza, non ci fosse più scampo, non ci fosse più Dio. Ecco cosa ho visto: idolatria e mancanza di fede. Idolatria e mancanza di fede. Teniamo a mente queste due cose.
Qualche settimana fa un’associazione di atei ha comprato dello spazio pubblicitario su alcuni autobus di Genova per dire, sostanzialmente, che la fede in Dio è male, che limita la libertà. E invece io dico che la mancanza di fede DEI CREDENTI e l’idolatria sono pericolose, perché riducono in schiavitù. In schiavitù.

La morte è un evento naturale. È una cosa che succede a tutti, e anche quando succede per violenza o per incidente, è un evento naturale. Cosa intendo dire? Se uno mi pugnala o se ho un grave incidente, è il mio corpo che per natura non regge il colpo. Anche quando provocata, la morte è una cosa che, per natura, noi non possiamo sfuggire. Dice un detto: la vita è un’esperienza dalla quale non si esce vivi. La morte è naturale e la morte è la nostra ultima schiavitù, quella da cui vorremmo liberarci, ma da cui non ci libereremo mai da soli, da cui non ci libereremo mai per natura.
Ed ecco che arriva il seminatore. Quel seminatore cui non importano le leggi naturali, quel seminatore che una fiducia incredibilmente innaturale in noi esseri umani, da mandare il suo unico Figliolo, Gesù Cristo, per salvare noi dalla nostra morte, per farci vivere una vita più consapevole, più giusta e per risuscitarci dalla morte.
Leggiamo nella prima lettera di Paolo ai Corinzi che “L'ultimo nemico che sarà distrutto, sarà la morte”(15,26) e, nel vangelo di Giovanni (11,25), Gesù dice “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà”. La legge naturale non è espressione della volontà di Dio. La legge naturale vuole che noi moriamo, la legge di Dio vuole che noi viviamo. La legge naturale vuole la nostra disuguaglianza, vuole che ci siano delle gerarchie tra esseri umani, in natura c’è chi è sopra e chi è sotto, chi è bello e chi è brutto, chi è capace e chi non è capace. In Cristo Gesù noi siamo tutti fratelli e sorelle. Non per natura: io per natura non ho niente a che fare con quasi nessuno di voi. È per Cristo Gesù che io possa chiamarvi cari fratelli e care sorelle e che voi possiate considerarmi un vostro fratello. È per Cristo Gesù che noi siamo fratelli e sorelle e che siamo liberi. Liberi dalla schiavitù della paura, liberi dalla schiavitù del giudizio, liberi dalla schiavitù della morte. Liberi. Come libero è il seminatore, che semina dove vuole, anche dove il seme non prende, perché il seminatore sa che, anche nel terreno che di natura non è affatto adatto alla semina, anche lì, c’è la speranza che il seme possa dare il suo frutto.
Il seminatore è Dio, il seme è la sua Parola e il frutto è la libertà. La nostra libertà, la libertà di tutti.
Amen.