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- Inserito da: Antonio Toni Bo...
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Diciassette anni fa, un film francese sulle 35 ore, “Risorse umane” ci mostrava cosa potesse accadere al mutare dei ritmi di produzione pro individuo e affrontava il tema della riduzione d’orario e dei conflitti in fabbrica e fuori.
Il lavoro o la sua assenza, è il problema con cui le persone sono costrette a fare il conti.
Le trasformazioni del lavoro, il lavoro che cambia, il lavoro subito; abbandonato dalla politica e dalla cultura; un dramma di individui cui viene negata un’entità collettiva ...o ne viene colta solo una parte, anche una particolare parte, come nel film di Laurent Cannet, “Risorse Umane”.
Il titolo coglie già una rivoluzione semantica importante: le persone, il loro lavoro, sono “risorse” dell’impresa, voci di bilancio aziendale, in cui viene lasciata solo la falsa dignità di un termine – risorse – che altro non è che l’uso speculativo di sempre dell’attività di donne e uomini.
Il film prende spunto dalla vertenza per l’applicazione della legge francese di allora, sulle 35 ore settimanali di lavoro. L’impresa non accetta l’imposizione della politica e propone una gestione aziendale della riduzione dell’orario di lavoro, rovesciando la logica ‘di più tempo libero per chi un lavoro ce l’ha, e di nuove occasioni per chi il lavoro non ce l’ha’, per ridurre il personale e renderlo più flessibile, perché così vogliono le nuove leggi del mercato.
Inconsapevole agente di quel rovesciamento è un giovane laureato, figlio di un operaio della fabbrica, che è convinto di poter conciliare gli interessi di capitale e lavoro attraverso una gestione intelligente e concordata tra le parti; una concertazione alla francese.
E, invece, scopre che i suoi sforzi servono ad aiutare la prossima ristrutturazione di quella fabbrica, la prossima ed ennesima riduzione del personale; nuovi licenziamenti tra i quali finisce anche suo padre che ha fatto di quel lavoro l’identità della propria vita, e lo strumento per l’emancipazione sociale di suo figlio.
Il film culmina nello scontro padre/figlio, in un nuovo rovesciamento, con il padre che continua a lavorare durante lo sciopero e il figlio che, abbandonate le illusioni concertative e passato dall’altra parte, lo tratta da crumiro e gli sbatte in faccia la frase chiave del film: “Mi hai cresciuto nella vergogna della mia classe”.
Il padre poi abbandona la macchina di cui sembra innamorato quando dice orgoglioso: “Ad essere bravi, si riescono a fare anche 700 pezzi all’ora” ...e si aggrega allo sciopero che blocca la produzione.
Ma non è così, perché il film si chiude con una nuova divisione, quella del giovane protagonista che se ne torna ai suoi studi a Parigi, e all’amico operaio che gli fa gli auguri perché torna “al suo posto”, gli chiede: “e tu ce l’hai un posto ?”
Già, qual è il posto di lavoro nel mondo della globalizzazione e del liberismo ?
Un non-luogo frantumato in mille posti, in mille attività, in mille anfratti in cui ognuno è solo e deve arrangiarsi, correndo continuamente, considerandosi sempre a disposizione di un’entità astratta, immateriale ed invisibile, che gli può offrire un’occasione.
Se il lavoro non è più un diritto, ma solo un’opportunità, si perde il senso collettivo e diventa solo una gara per la sopravvivenza: il capitale può spostarsi ovunque, fare ciò che vuole, gestire il tempo degli uomini sul ritmo dei listini di borsa. Il lavoro si è trasformato nei “lavori”; i suoi “corpi” sono terribilmente vincolati al territorio e non hanno più alcun potere; il suo tempo è instabile e deve adeguarsi ai ritmi di chi concede un lavoro.
La giornata lavorativa non ha più confini, la notte è come il giorno, la domenica è un giorno qualsiasi, la propria casa è come la fabbrica o l’ufficio.
Senza potere sul proprio lavoro, senza più vincoli per il capitale, persino una legge che dovrebbe aumentare la libertà del tempo e incrementare l’occupazione, diventa uno strumento in mano alle imprese per produrre il suo contrario.
Il governo francese di allora, di Jospin, aveva varato la legge sulle 35 ore, andando controcorrente; ma una legge da sola non poteva nulla di fronte all’onda del modello americano che detta le leggi della globalizzazione. Senza un’identità e la rappresentanza degli interessi di parte, chi lavora non può fronteggiare la forza di un capitale che non ha più alcun interesse a simulare un ruolo sociale di progresso collettivo.
Non c’è più l’antica convinzione di una generazione sicura che quella successiva vivrà meglio, ma la speranza che attraverso gli sforzi personali qualcuno ce la possa fare.
Per questo chi vive di lavoro subordinato – in tutte le sue forme, quelle tradizionali e quelle nuove della falsa indipendenza – non ha più un posto preciso, ma vive sospeso nel vuoto della galassia dell’economia globale, ...alla ricerca appena iniziata dei propri simili.